lunedì 4 novembre 2013

Autoindagine

La ragione illuminante matura la consapevolezza che gran parte delle ricerche dell’uomo riguardano lui stesso, nel senso che tutto ciò di cui fa esperienza è un suo processo, pertanto interiore. Non possiamo fare esperienze esteriori. Per esempio, il cosiddetto viaggio fuori dal corpo, non è un viaggio fuori di noi, ma è un modo diverso di percepire il corpo e di definire il rapporto con lo stesso, anche qualificandolo dalla prospettiva della sperimentazione non sensoriale.  
Il mondo che percepiamo non è un mondo preesistente, è la nostra percezione a produrlo in noi stessi: non si tratta della percezione di un cosmo esteriore, bensì del generare in noi l’esperienza chiamata cosmo, basata sulla forma spazio, prodotta singolarmente da ogni essere umano e fondata, a sua volta, su processi che precedono il piano esperienziale.
Ogni indagine sperimentale sul cosmo è, pertanto, un’indagine dell’uomo su se stesso. Il conosciuto non è mai scisso dal conoscitore, fa sempre parte del campo esperienziale (di chi) che ne fa esperienza; sia nel caso della percezione di fenomeni (espresso diversamente: dello produrre in noi le percezioni chiamate fenomeni in questione), sia nel caso della maturazione della conoscenza su elementi che non fanno parte di noi, per esempio su Dio Origine.  
Il conoscere gli altri non passa soltanto attraverso noi, ma dalla prospettiva del nostro percepire è comunque un’autoindagine. Gli altri esistono effettivamente come processi individuali, ma ciò che percepiamo come altri sono nostre esperienze. L’esperienza che in genere definiamo corpo altrui, non è l’effettivo corpo altrui, ma un’esperienza prodotta dalla nostra percezione, una forma generata in noi come conseguenza di uno specifico interagire con l’esistenza altrui. Discorso simile vale per le emozioni altrui, che possiamo riconoscere, senza poterle però mai sperimentare. Le emozioni altrui possono influire sul nostro campo esperienziale, favorendo in noi la generazione di emozioni simili, ma le emozioni che sperimentiamo non possono essere che nostre, il campo esperienziale è sempre interiore. Conoscere gli altri fa parte dell’indagine su se stessi, perché si tratta del rapportarsi con ciò che dalla nostra prospettiva sono nostre proiezioni (in questo senso si tratta sempre di autorapporti), che emergono dalla nostra esperienza di esserci: sostanzialmente siamo senza forma, “noi” e gli “altri” assumiamo forma grazie alla percezione.  
Tramite le proiezioni altri possiamo anche consapevolizzare l’unità e maturarci come Uno esperienziale. Per ottenere ciò dobbiamo liberarci dalla sofferenza nei rapporti e in generale, anche armonizzando con la Beatitudine le vibrazioni relative alle proiezioni altri. Essendo autorapporti si tratta sempre di autosofferenza; questo possiamo comprenderlo, quando sufficientemente consapevoli non reagiamo in modo reattivo alle emozioni negative altrui, anzi  trasformiamo consapevolmente il loro influsso negativo. Per risparmiarci sofferenza dobbiamo riorganizzare il rapportarci con le proiezioni altri, per esempio perdonando, anche perché è molto utile farlo. La spiritualità è profondamente utilitaristica, nel senso positivo del termine, perché persegue il bene e perdonare fa sicuramente bene. L’umiltà spirituale può essere definita anche come capacità di attuare ciò che è utile al bene, a prescindere dalle nostre convinzioni. 
Lo stato di unità fa percepire l’unità tra ciò che definiamo come noi e come altri e può farci comprendere che l’unità esiste sempre, anche quando percepiamo separazione, che è un’esperienza che avviene comunque nella percezione, la quale non può essere mai scissa da se stessa e dalle sue parti.  La percezione di unità indica metaforicamente anche l’unità tra la nostra esistenza individuale e quelle altrui; metaforicamente perché si tratta di un’unità impercettibile, essendo al di là del nostro campo esperienziale. 
L’Uno esperienziale è la pura Conoscenza in essere (Beatitudine), senza diversificazione in conoscitore e conosciuto. È il Sé esperienziale che percepisce vari aspetti di Sé, tra cui le esperienze “altri”, avvenire in lui stesso. Durante lo stato di unità, invece, c’è un “io” che percepisce l’unità con qualcosa che definisce diverso da sé.  
L’indagine su Dio Beatitudine è nettamente un’autoindagine, è l’uomo a generare in sé la Beatitudine, che in quanto esperienza esige il cervello; la Beatitudine non esiste a prescindere dalla forma fisica. Indagare su Dio Beatitudine significa tendere a divenire consapevoli della propria pura Divinità, intesa come pura esperienza di esserci, ed espanderla in tutto il proprio campo esperienziale, trasformandolo da inferno e purgatorio in Paradiso.  
Dio Origine (Vuoto Assoluto, Dio Immanifesto) precede l’uomo, nel senso che l’uomo fa parte del Suo manifestarsi, ma indagare su Dio Origine è comunque un’autoindagine; si tratta della ricerca del Sé Reale: Chi sono in Realtà?, è la domanda fondamentale.  
Indagando su Dio Beatitudine e Dio Origine, la ragione può destinarsi a scoprire Ciò che lo precede: la pura Conoscenza in essere (Beatitudine) e la Conoscenza Assoluta (Origine) e questo è profondamente consapevolizzante. Si tratta del modo diretto per comprendere le più profonde verità filosofiche e spirituali, veramente incomprensibili se la ragione non “incontra” la Conoscenza.   www.andreapangos.it

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